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David Donnini fra i resti della sinagoga di Gamla

Fermiamoci un attimo per una riflessione critica: tutto quello che abbiamo detto finora ha senz'altro un impatto molto forte. Le argomentazioni non sono vaghe: il titolo Nazareno, il precipizio, la montagna, la latitanza archeologica e letteraria... E' tutto molto stimolante ma, se vogliamo essere onesti, sarà giusto avanzare anche l'obiezione naturale che qualunque persona intelligente, a questo punto, avrà sentito nascere nella sua mente: per quale irresistibile motivo gli evangelisti avrebbero dovuto mettersi d'accordo nello spostare la patria di Gesù da un paesello del Golan ad un altro paesello della Galilea? E poi per affrontare tutte le conseguenze di questo spostamento? Ovverosia i cambiamenti di nome, le incongruenze, i precipizi che mancano, insomma tutti i pasticci che insorgono inevitabilmente quando si decide di raccontare... una bugia. E' vero che abbiamo raccolto molti interessanti indizi, ma ci manca la cosa più importante: non c'è accusa che possa convincere un giudice se non c'è anche l'evidenza di un valido movente.

Ebbene, la risposta a queste necessarie obiezioni non solo esiste, ma finisce per diventare essa stessa un indizio, il più grosso degli indizi, che si aggiunge a quelli che abbiamo visto finora.
Altrove abbiamo visto che la letteratura evangelica del canone ecclesiastico rivela un intento permanente dei suoi autori. Essi erano spinti dalla necessità irrinunciabile di spoliticizzare il loro Messia; di "de-messianizzarlo"; di renderlo estraneo alla lotta patriottico religiosa degli ebrei; al tema della ricostruzione del Regno di Dio inteso in senso giudaico come Regno di Yahweh; di scorporarlo definitivamente dall'ambito dei movimenti esseno-zeloti che rappresentavano la dissidenza politica e spirituale al contempo, purista, integralista e fondamentalista, ostile ai romani. Può lo spostamento della città di Cristo da Gamala a Nazareth avere qualcosa a che fare con questo intento di spoliticizzazione?

Non solo può, ma è un elemento fondamentale di questa operazione finalizzata a rappresentare Gesù come il salvatore apolitico, il redentore delle anime che non intende affatto combattere i regni terreni né costruirne alcuno. Infatti Gamala era un famoso quartier generale della lotta zelota, che aveva dato filo da torcere alle legioni di Vespasiano e, se si fosse saputo che l'uomo crocifisso da Pilato in quanto aspirante re dei Giudei era nato e cresciuto in quella città, l'operazione di spoliticizzazione sarebbe stata assai meno facile. Se poi si fosse addirittura conosciuta la vera identità dei suoi genitori, allora tale operazione sarebbe stata del tutto impossibile.

Analizzando la storia di Gamala, per esempio leggendo le opere di Giuseppe Flavio, possiamo facilmente sapere che questa cittadina sulle alture del Golan era la patria del famoso ribelle Giuda "il galileo"; chiamato così come tutti gli appartenenti alla sua setta (come anche i seguaci di Gesù). Non solo, ma scopriamo che la città era la patria di origine degli zeloti, degli intransigenti messianisti, dei ribelli fondamentalisti che volevano portare a compimento, ad ogni costo, le profezie messianiche sul riscatto di Israele e sulla ricostruzione del regno di Davide.

Fra quelle rovine sono state trovate alcune monete che non esistono da nessun'altra parte e che, pertanto, sono un tipico prodotto dell'ambiente culturale della città. Esse costituiscono un manifesto ideologico del movimento messianico, dal momento che sulle due facciate recano le seguenti iscrizioni:

Lege'ulat Yerushalem Hak (Dosha)
"per la salvezza... (di) Gerusalemme la Santa"

dimostrando così che lassù, nel Golan, più di 150 km a nord di Gerusalemme, si trovava una comunità talmente impegnata nella causa messianica da coniare monete che erano autentici inni patriottico-religiosi.

Ai tempi in cui Erode il Grande era un giovane in carriera, speranzoso di arrivare alle altezze politiche che poi raggiunse, egli dovette affrontare in Galilea una "banda" di intransigenti fondamentalisti yahwisti, capeggiati da un certo Ezechia. Giuseppe Flavio ce lo descrive come un dottore (cioè un rabbi) della città di Gamala. Erode riuscì a uccidere il pericoloso capopolo.
Più tardi, alla morte di Erode, il figlio di Ezechia, Giuda, anch'egli di Gamala, erede della causa patriottico religiosa per cui era morto il padre, e animato da un odio personale nei confronti della dinastia erodiana, uscì allo scoperto con azioni antiromane, che riscossero significativi successi militari. Egli, come ci dice il solito Giuseppe Flavio, inventò la setta degli zeloti, che aveva senz'altro una grossa affinità con quella degli esseni del Mar Morto. Giuda, detto il galileo, sollevò un'altra importante rivolta durante il censimento della Palestina supervisionato da Quirino, all'epoca in cui Luca ambienta la nascita di Gesù. Questa volta Giuda ci lasciò la pelle, e con lui una gran quantità di zeloti, che furono crocifissi.
Più tardi ancora i figli di Giuda, anch'essi di Gamala, convinti di essere i depositari di un mandato messianico a carattere familiare, e quindi dinastico, continuarono la lotta del padre e del nonno. Fra costoro Giacomo e Simone, arrestati e giustiziati esattamente quando, secondo la tradizione evangelica, furono arrestati gli apostoli... Giacomo e Simone, con l'accusa di attività sovversive.
E poi Menahem, ultimo figlio di Giuda, che, durante i giorni terrificanti della guerra giudaica, riuscì, unico fra tutti i membri di questa dinastia con ambizioni messianiche, ad indossare la veste rossa del Re dei Giudei (la stessa ambizione che procurò a Gesù Cristo i chiodi nelle mani e nei piedi), sebbene per un breve periodo, prima che le fazioni avverse lo liquidassero.

Ad un certo punto i romani si resero conto che Gamala non poteva continuare ad esistere. Essa, nella storia del dominio romano sulla Palestina, costituisce un perfetto parallelo di quello che, pochi anni dopo, sarà il destino di Masada. E così, come abbiamo già detto, risoluti ad estirpare questo pericolosissimo quartier generale zelota, mandarono Vespasiano, con le sue legioni, a farla finita. In effetti Vespasiano, dopo lungo e doloroso assedio, ce la fece, Gamala fu trasformata in una catasta di macerie e Vespasiano ne ricavò la gloria sufficiente a diventare imperatore.

Poteva il Gesù Cristo dei Vangeli della predicazione antimessianista di Paolo essere riconosciuto come un cittadino di Gamala? Anzi, come un membro della dinastia del vecchio Ezechia? Come il depositario di una eredità messianica per cui si erano sparsi fiumi di sangue ebreo e romano? Si poteva riconoscere che i suoi fratelli, Giacomo, Simone, Giuda il gemello (Toma in ebraico, Thomas in greco, Tommaso in italiano), elencati come apostoli negli elenchi sinottici, erano i figli di Giuda il galileo?

Si poteva riconoscere suo padre come il terribile capo zelota Giuda, della città di Gamala? Si noti, a questo proposito, un fatto curioso e significativo: il vangelo di Marco, capostipite degli altri, certamente utilizzato come base dai redattori dei testi attribuiti a Matteo e a Luca, non conosce Giuseppe il falegname. Il buon uomo non c'é nella narrazione marciana, perché, probabilmente, non era ancora stato inventatato come controfigura di Giuda.

Ecco dunque come si siano potuti ottenere ben... tre piccioni con una sola fava. Spostando la patria di Gesù Cristo da Gamala ad una ipotetica Nazareth di Galilea i redattori dei Vangeli della predicazione antimessianista di Paolo hanno ottenuto ben tre risultati simultanei:

1 - hanno allontanato Gesù da quella città infame che si portava addosso tutta l'eredità della causa messianica,
2 - hanno mascherato il significato settario del titolo Nozri (ebr.), Nazorai (aram.), Nazoraios (gr.),
3 - hanno purgato l'aggettivo galileo, che stava appiccicato addosso ai membri della dinastia del vecchio Ezechia, come indicativo di una militanza rivoluzionaria, poiché le azioni di questo movimento erano iniziate in Galilea e si erano poi svolte in quella regione (a Sefforis per esempio, dove gli arsenali militari erano stati saccheggiati dai ribelli).

Questo è il movente che spiega tutto e che diventa una prova, ancor più di quanto non lo siano tutte quelle cose che abbiamo già detto sopra su Nazareth, sulla montagna, sul precipizio, sulla sinagoga, sul lago, ecc...

Adesso cominciamo veramente a capire anche il motivo dello straordinario accanimento persecutorio degli imperatori romani, nel primo secolo, contro i pericolosi seguaci del Messia giudeo. Non si trattava affatto dell'avversione nei confronti del concetto monoteistico, o della teologia della resurrezione e via dicendo. Se i romani avessero avuto questi pregiudizi religiosi avrebbero passato a fil di spada tutti gli ebrei, perché non ce n'era uno fra loro, nemmeno fra i moderati antimessianisti, nemmeno fra i conniventi sadducei, che avrebbe accettato di adorare gli dei romani, o lo stesso imperatore come dio. Questa è solo la scusa, storicamente scorretta, con cui i cristiani moderni cercano di giustificare una persecuzione che, se fosse stata condotta contro di loro per quei motivi, avrebbe dovuto essere condotta anche contro molti altri. In realtà c'erano alcuni ebrei particolari, i messianisti (=chrestianoi in greco; christiani in latino), indottrinati dalle scritture essene o dalle teorie di Giuda il galileo, che non avrebbero mai dichiarato pubblicamente che il loro padrone era Cesare (kaisar despotes). Ed era per questo, e solo per questo, che essi venivano condannati a morte.

Vediamo ora i punti di contatto fra Gesù il galileo e Giuda il galileo.

 

Caratteristiche di
Giuda il galileo

Caratteristiche di
Gesù il galileo

La politica di obiezione fiscale

Giuda invitava gli ebrei a non pagare le tasse ai romani, poiché ciò sarebbe stato sacrilego, come riconoscimento all'imperatore romano di una sovranità su Israele che spettava esclusivamente a Yahweh;

Gesù è stato accusato per questioni relative all'obiezione fiscale ("Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re" Lc XXIII, 2). Si noti la perfetta coincidenza delle tre accuse coi temi del movimento di Giuda;

La denominazione

I componenti della sua setta erano definiti "galilei";

il movimento di Gesù era conosciuto col nome "i galilei" ("In verità, anche questo era con lui; è anche lui un Galileo" Lc XXII, 59; "Una serva gli si avvicinò e disse: Anche tu eri con Gesù, il Galileo!" Mc XXVI, 69);

Gli obiettivi

L'ambizione messianica (che fu coronata da uno dei figli di Giuda, Menahem, il quale, durante la terribile guerra del 66-70 d.C., riuscì, seppure per breve tempo, ad indossare la veste messianica in Gerusalemme);

Gesù vantava una ambizione messianica, ovverosia il diritto al trono di Israele, al punto da essere definito "figlio di Davide" per numerose volte nella narrazione evangelica. Inoltre tutta la sua famiglia, anche molto dopo la sua morte, continuava a vantare un diritto dinastico ("Quando lo stesso Domiziano ordinò di sopprimere i discendenti di Davide, un'antica tradizione riferisce che alcuni eretici denunciarono anche quelli di Giuda (che era fratello carnale del salvatore) come appartenenti alla stirpe di Davide e alla parentela del Cristo stesso. Egesippo riporta queste notizie, dicendo testualmente: "Della famiglia del Signore rimanevano ancora i nipoti di Giuda, detto fratello suo secondo la carne, i quali furono denunciati come appartenenti alla stirpe di Davide"". Questo passo di Eusebio di Cesarea (Historia Ecclesiastica) mostra in modo fin troppo chiaro due cose: che Gesù aveva dei fratelli carnali, e che costoro e i loro discendenti, dopo la morte di Gesù, continuarono a perseguire la medesima causa dinastica, per la quale furono perseguitati dai romani);

Le azioni

L'incitazione del popolo alla rivolta e l'avere acceso, più volte, focolai di ribellione;

Gesù è stato accusato per azioni sovversive ("Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, ... e affermava di essere il Cristo re" Lc XXIII, 2);

Le conseguenze

Praticamente tutti i suoi figli sono stati condannati a morte per la loro attività messianica;

Gesù è stato giustiziato dai romani per attività messianica ("Erano le nove del mattino quando lo crocifissero. E l'iscrizione con il motivo della condanna diceva: Il re dei Giudei" Mc XV, 25);

La provenienza

Gamla.

La città di Gesù, secondo la descrizione lucana, deve trovarsi nelle strette vicinanze di un precipizio, caratteristica questa che manca del tutto a Nazareth mentre calza a perfezione su Gamla.

Gli elementi di collegamento fra Gesù e Giuda il galileo sono sorprendenti. Ed è proprio questo fatto che ha determinato un atteggiamento severamente censorio da parte dei redattori dei Vangeli coerenti con l'insegnamento riformista di Paolo. Costoro, nel trasmettere l'immagine di un Salvatore che non avesse relazioni col messianismo classico degli ebrei (esseni e zeloti), erano obbligati a "purgare" completamente l'immagine del loro Messia da ogni connotazione che potesse ricollegarlo con la sua città di origine, col suo movimento, con la sua famiglia.
In effetti la relazione fra Giuda e Gesù può essere immaginata ancora più stretta che non la semplice condivisione di una causa politico religiosa. Se notiamo che i fratelli di Gesù hanno nomi uguali a quelli dei figli di Giuda il galileo; non solo, ma che due fratelli di Gesù (gli apostoli Giacomo e Simone) sono stati arrestati e probabilmente giustiziati nello stesso momento in cui sono stati arrestati e giustiziati due figli di Giuda il galileo, di nome, appunto, Giacomo e Simone, allora possiamo avanzare l'ipotesi che Gesù avesse derivato la sua ambizione messianica proprio dal fatto di essere il figlio primogenito del celebre Giuda il galileo.


Lo scosceso precipizio a brevissima distanza
dalla sinagoga di Gamla [foto Donnini]

Del resto, se leggiamo con atteggiamento storico critico i racconti evangelici sulla nascita di Gesù, possiamo giungere ad una inequivocabile conclusione: che i redattori erano intenzionati a collocare il loro Salvatore in una cornice del tutto leggendaria e, soprattutto, a sradicarlo completamente da quelle che erano state le origini dell'uomo che era stato giustiziato da Ponzio Pilato.
Scrive a questo proposito lo studioso E. B. Szekely:

    "Il padre di Cristo non era l'oscuro e inconsistente Giuseppe dei Vangeli, che è stato rimpiazzato dall'angelo Gabriele e dallo Spirito Santo nel compimento della funzione maritale, ma un uomo austero, di bell'aspetto, che apparteneva ad una nobile famiglia, che era il fondatore del "Messianismo" come setta, da cui, più tardi, sono derivati i "Cristiani"... Il suo vero nome era Giuda il golanita e veniva da Gamala..." (The essene origins of Christianity, IBS, USA, 1980).

Anche G. Jossa in un suo saggio di ispirazione cattolica, finalizzato a distinguere il movimento di Gesù dai movimenti di liberazione della Palestina, è costretto ad ammettere quanto segue:

    "Giuda è un profeta, un nabi, che riprende con assoluta urgenza l'attesa messianica nazionale di Israele. Al centro della sua predicazione è l'annuncio della venuta del Regno di Dio e la richiesta di collaborazione del popolo alla sua realizzazione ... Vari elementi sembrano avvicinare le due figure di Giuda di Gamala e Gesù di Nazareth. Innanzitutto l'origine galilaica e laica, intesa non puramente come elemento geografico e sociologico, ma come espressione di una religiosità diversa da quella dell'ambiente sacerdotale di Gerusalemme ... Giuda e Gesù sono stati chiamati entrambi 'galilei'; fatto che rende talvolta difficile l'identificazione sicura del gruppo religioso indicato nelle fonti con questo nome..." (G. Jossa, Gesù e i movimenti di liberazione della Palestina, Paideia, Brescia, 1980).

Gli insediamenti umani, a Gamla, risalgono alla prima età del bronzo. Per quanto riguarda gli ebrei sembra che essi abbiano cominciato ad occuparla non prima del ritorno dall'esilio babilonese, nel sesto secolo a.C. Lo stesso Giuseppe Flavio ci dice che, all'epoca di Erode, viveva in questa città il celebre Giuda detto il galileo: "C'era un certo Giuda, un gaulonita, di una città il cui nome era Gamala..." (Giuseppe Flavio, Antiquitates Judaicae, XVIII, I). A quel tempo la città doveva essere ricca perché gli scavi archeologici hanno svelato alcuni interessanti aspetti della sua vita economica. La coltivazione delle olive e la produzione di olio era una industria molto importante a Gamla, e la sua esportazione aveva fatto la fortuna della città. Ancora oggi è possibile visitare il grande frantoio al centro del quale si trova la base circolare, in pietra, sulla quale girava la pressa rotante. Il paesaggio intorno doveva essere costellato di uliveti, mentre oggi non se ne vede uno. All'interno dell'area urbana è stata trovata gioielleria, anelli d'oro, oggetti in vetro, osso e avorio, profumi, monete d'argento.


David Donnini a Gamla
nel luglio 1997

La città era strettamente giudaica, lo provano la totale assenza di decorazioni che non siano semplicemente geometriche (la religione ebraica vieta la rappresentazione della figura umana), nonché la presenza di una bellissima sinagoga e di numerose miqweh simili a quelle che si possono trovare a Qumran e a Masada.

Un'ala del movimento messianico ebbe origine proprio in questo luogo; fu fondata da Giuda detto il galileo, ed era fortemente impegnata su temi di cui abbiamo già parlato, per esempio l'obiezione fiscale. I componenti della famiglia di Giuda rivendicavano un autentico diritto dinastico al trono di Israele, considerandosi "figli di Davide", al punto che Menahem, figlio del famoso Giuda, riuscì addirittura a indossare la veste del messia in Gerusalemme e a farsi re dei Giudei, sebbene per breve tempo.
Oltre sessanta anni dopo la distruzione del tempio, ovverosia intorno al 135 d.C., un altro discendente di Giuda il galileo si propose ancora come "figlio di Davide" e avanzò pretese messianiche, si tratta di un certo Simon bar Kokhba (Simone, figlio della stella) che accese una seconda rivolta antiromana, destinata anche questa al fallimento.

Giuseppe Flavio ci racconta la storia della tragica fine di questa città, che fu presa di mira dallo stesso Vespasiano (prima che costui diventasse imperatore), in quanto roccaforte del più intransigente movimento messianista, ed espugnata dopo un lungo assedio. Il suicidio in massa degli abitanti di Gamala ricorda in maniera inequivocabile lo stesso gesto compiuto anche dagli zeloti asserragliati a Masada, e crea un ulteriore collegamento della città di Gamala coi movimenti messianici [vedi il brano di giuseppe Flavio in fondo all'articolo]. [vedi figura qui sotto]


Le pietre che le legioni di Vespasiano
lanciavano su Gamla, con le catapulte,
durante l'assedio della città

Ecco dunque l'anello mancante che cerchiamo, affinché tutta la lunga serie di indizi possa essere avvalorata dall'esistenza di un valido motivo per cui gli evangelisti avrebbero effettuato la loro censura storica.
In seguito alla riforma teologica operata da San Paolo, che aveva creato la figura di un salvatore de-messianizzato, ovverosia reso estraneo alla lotta politico-religiosa dei messianisti e coerente con le immagini teologiche dei salvatori greco-orientali (il Soter, il Saoshyant, e il Buddha), i redattori del Vangelo neo-cristiano (uso il prefisso neo per distinguere questo cristianesimo de-messianizzato da quello strettamente giudaico dei seguaci di Cristo) erano fortemente motivati a scindere la figura del loro salvatore da quella dell'aspirante Messia dei Giudei che proveniva da Gamala, probabilmente dalla stessa famiglia di Giuda il galileo, e che era ben noto ai romani per la sua inequivocabile connotazione esseno-zelotica. Guai a ricordare che il Cristo era nato e cresciuto a Gamala, dopo che questa città riottosa aveva dato tanto filo da torcere ai romani, e aveva impegnato lo stesso Vespasiano in un difficile assedio, per alcuni mesi, prima di cadere finalmente sotto il ferro e il fuoco dei legionari.

A questo punto non possiamo fare a meno di ricordare la famosa frase in cui Gesù dice: "...non può restare nascosta una città collocata sopra un monte..." (Mt V, 14) facendo venire in mente, per un'altra volta, Gamala.

Su questo fatto mi è stato segnalato, dal dr. Pietro Le Mura, della Stanford University (California - USA), un particolare molto importante: infatti lo studioso mi ha inviato un e-mail in cui si fa notare che il Vangelo di Tomaso (uno scritto gnostico, considerato apocrifo dalla Chiesa e fatto scomparire fin dai primi secoli, finché il caso non ha voluto farlo tornare alla luce in questo secolo a Nag Hammadi, in Egitto) ai versi 31 e 32 recita quanto segue:

"...Gesù disse, "Nessun profeta è benvenuto nel proprio circondario; i dottori non curano i loro conoscenti... una città costruita su un'alta collina e fortificata non può essere presa, né nascosta"...".

Parole di questo genere sono presenti già nei Vangeli di Matteo e Marco; è il famoso brano "...nemo profeta in patria...", che tutti conoscono, nel quale si parla della città di residenza di Gesù.

Ora, è estremamente significativo il fatto che, in associazione a quel brano, il Vangelo di Tomaso aggiunga la frase relativa alla "città costruita su un'alta collina e fortificata". Anche nei Vangeli canonici è presente una frase simile: "...non può restare nascosta una città collocata sopra un monte..." ma, coerentemente con l'intento censorio di cui abbiamo parlato, sono state operate due modifiche dagli autori del testo:

1 - questa frase è stata allontanata dal brano che parla della città di Gesù, affinché non ci sia alcun riferimento;

2 - è stato tolto l'aggettivo "fortificata", dal momento che parlare di una città fortificata e costruita su un'alta collina avrebbe costituito un richiamo fin troppo esplicito alla famosa Gamla che era stata espugnata da Vespasiano durante la tremenda guerra degli anni 66/70.

Aggiunge il dr. Le Mura, dalla California: "...Interessante, no? La mia ipotesi e' che [il Vangelo di Tomaso] stia appunto parlando di Gamla...".


Gamala, o Gamla [Foto Donnini, luglio 1997]

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Dalla GUERRA GIUDAICA di Giuseppe Flavio (Libro IV)

I 2. La città, che per le sue difese naturali era cosi imprendibile, Giuseppe l'aveva cinta di mura e rafforzata con gallerie e trincee. Gli abitanti, grazie alla conformazione dei luoghi, erano più baldanzosi di quelli di Iotapata, ma di gran lunga meno numerosi risultavano gli uomini atti alle armi, e dal di fuori non ne avevano accolti di più appunto perché confidavano nelle difese naturali; infatti per la sua forte posizione la città si era riempita di rifugiati e cosi per sette mesi aveva resistito alle truppe precedentemente inviate da Agrippa ad assediarla.

I 3. Vespasiano si mise in marcia da Ammathus, dove s'era accampato di fronte a Tiberiade (Ammathus si potrebbe tradurre col nome di Terme, perché v'è una sorgente di acque termali curative), e giunse a Gamala. Non essendo in grado di stabilire il blocco intorno all'intera città, data la conformazione del terreno, collocò dei posti di controllo nei luoghi praticabili e occupò il monte sovrastante la città. Dopo che le legioni vi ebbero impiantato e fortificato come di consueto i loro accampamenti, Vespasiano cominciò a innalzare terrapieni alle spalle della città, e quello nella parte orientale, ove sorgeva la torre più alta della città, prese a colmarlo la legione decimaquinta, mentre la legione quinta investiva la parte antistante al centro della città e la decima riempiva le trincee e i burroni. Intanto il re Agrippa si appressò alle mura e cercò d'intavolare trattative di resa con i difensori, ma venne ferito da un fromboliere che lo colpì con una pietra al gomito destro. Il re venne subito circondato dai suoi mentre i romani si sentirono spronati alle operazioni d'assedio sia dallo sdegno per ciò che era toccato al re, sia dal timore per sé stessi; pensavano infatti che non avrebbe indietreggiato dinanzi ad alcun eccesso di crudeltà verso stranieri e nemici chi era cosi inferocito contro un connazionale, che per di più lo consigliava per il suo bene.

I 4. Innalzati in breve tempo i terrapieni per il gran numero delle braccia e per la pratica in tali lavori, i romani accostarono le macchine. Gli aiutanti di Carete e di Giuseppe - erano questi due a comandare nella città - ordinarono a battaglia gli uomini, sebbene costoro fossero impauriti pensando di non poter resistere a lungo all'assedio per l'insufficienza dell'acqua e delle altre provviste. Incoraggiatili, li condussero tuttavia sulle mura, ed essi per un poco respinsero quelli che appressavano le macchine, ma poi colpiti dalle catapulte e dalle baliste si ritirarono all'interno della città. Allora i romani, avvicinati in tre punti gli arieti, sconquassarono il muro e riversandosi attraverso le brecce con grandi squilli di trombe e frastuono d'armi mescolati al loro grido di guerra piombarono sui difensori della città. Questi per un certo tempo contennero le prime ondate, impedendo loro di avanzare, e valorosamente resistettero ai romani; poi, cedendo agli avversari che erano più numerosi e sbucavano da ogni parte, si ritirarono verso la parte alta della città. A un certo punto, mentre i nemici li incalzavano, essi si rivoltarono e piombarono loro addosso sospingendoli verso il basso e, strettili in spazi angusti e malagevoli, ne fecero strage. I romani, non potendo resistere alla spinta dei nemici che li pressavano dall'alto né aprirsi un varco tra i commilitoni che premevano dal basso, si disimpegnarono saltando sui tetti delle case dei nemici che erano a livello delle strade. Ma ben presto, essendosi riempite e non sopportando il peso, le case cominciarono a crollare, e una sola cadendo provocava la rovina di molte di quelle sottostanti, e cosi queste a loro volta ne facevano cadere altre. Ciò causò gravi perdite fra i romani i quali, pur vedendo che le case crollavano, continuavano a saltarvi su non avendo altra via d'uscita; molti restarono sepolti dalle rovine, molti pur salvando la vita perdettero qualche parte del corpo, moltissimi infine ne uccise il polverone soffocandoli. Quelli di Gamala videro in ciò l'aiuto di dio e insistettero nell'attacco senza badare alle loro perdite, costringendo i nemici che sdrucciolavano per le ripide viuzze a saltare sui tetti, e continuando a uccidere con i loro colpi dall'alto tutti quelli che cadevano. Le macerie fornivano loro gran quantità di pietre e le armi le offrivano i cadaveri dei nemici; infatti strappavano le spade ai caduti e le usavano per finire i feriti. Molti romani poi trovarono la morte gettandosi giù dalle case che stavano per crollare. Anche per quelli che riuscirono a fuggire non fu una cosa facile la fuga; infatti per l'ignoranza delle strade e per il denso polverone non si riconoscevano fra loro e nella confusione si ammazzavano l'un l'altro.

I 5. Costoro dunque solo con difficoltà riuscirono a trovare le vie d'uscita e si ritirarono dalla città. Intanto Vespasiano, che era sempre stato vicino ai suoi uomini in difficoltà, vinto da una gran pena nel vedere la città rovinare addosso all'esercito, noncurante della sua sicurezza si era inavvertitamente spinto un po' alla volta sino al punto più alto della città, dove si trovò isolato al centro dei pericoli con solo pochissimi al suo fianco; non stava allora con lui nemmeno suo figlio Tito, essendo stato inviato in Siria da Muciano. Il generale non stimò né sicuro né decoroso volgere le terga, ma ricordandosi delle prove difficili da lui superate fin da giovane e del proprio valore, come per una divina ispirazione fece congiungere gli scudi dei suoi compagni a protezione dei loro corpi e delle armature e affrontò la marea di colpi che si riversavano dall'alto: non cedette né alla massa degli uomini né dei proiettili finché i nemici, impressionati da un tal coraggio sovrannaturale, rallentarono gli assalti. Allora, mentre quelli incalzavano con minor slancio, egli si ritirò a passo a passo senza mostrare le spalle prima di essere fuori del muro. In questo scontro caddero moltissimi romani, fra cui il decurione Ebuzio, che si era distinto per il suo grandissimo valore non solo nell'azione in cui perse la vita, ma anche prima in ogni occasione, e che aveva inflitto gravissime perdite ai giudei. Un centurione di nome Gallo, rimasto tagliato fuori insieme con dieci uomini nella confusione della mischia, si era nascosto in una casa e qui aveva sentito - essendo un Siro come i suoi - i discorsi fatti a tavola dagli abitanti circa i piani stabiliti per l'attacco contro i romani e per la loro difesa; durante la notte saltò su, uccise tutti e insieme coi suoi soldati rientrò fra i romani.

I 6. Vespasiano, vedendo l'esercito demoralizzato perché non avvezzo alle sconfitte e perché fino a quel momento non aveva mai subito un tale disastro, e per di più divorato dalla vergogna di aver abbandonato il comandante solo in mezzo ai pericoli, si diede a rianimarlo. Facendo finta di niente per ciò che riguardava la sua persona, per evitare la più piccola impressione di un rimprovero, disse che bisognava sopportare coraggiosamente una disfatta che toccava tutti quanti, riflettendo sulla natura della guerra: come non si raggiunge mai la vittoria senza perdite e com'è incerta la mutevole fortuna. Perciò, dopo aver sterminato una miriade di giudei, anch'essì avevano pagato un piccolo scotto alla dea. Ma, com'era da uomini dappoco esaltarsi troppo ai successi, così era da vili abbattersi negli insuccessi. «Nell'un caso e nell'altro le situazioni mutano rapidamente, e il più forte è chi pur nella prospera fortuna si conserva moderato, per restar sereno anche quando dovrà affrontare le avversità. Ciò che ora è capitato non si deve né alla nostra debolezza né al valore dei giudei, perché è stata la difficoltà del terreno che a loro ha fatto avere la meglio e a noi la peggio. Sotto questo rispetto vi si potrebbe rimproverare di non aver frenato il vostro slancio; quando infatti i nemici si ritiravano verso l'alto voi dovevate fermarvi, e non inseguirli esponendovi ai pericoli che impendevano dall'alto; poi, impadronitivi della città bassa, dovevate un po' alla volta provocare i cittadini a una battaglia sicura e su un terreno più stabile. E invece, anelando sfrenatamente alla vittoria, avete trascurato la vostra sicurezza. Ma il mancare di circospezione in guerra e la cieca furia dell'assalto non sono difetti di noi romani, che anzi c'imponiamo sempre con la nostra esperienza e la nostra disciplina, ma son difetti da barbari, a cui i giudei debbono soprattutto le loro sconfitte. Occorre dunque far ritorno alle nostre qualità abituali e trarre motivo di coraggio più che dì avvilimento da quest'immeritata sconfitta. La miglior consolazione ognuno la cerchi nel suo braccio; così infatti vendicherete gli uccisi e punirete gli uccisori. Quanto a me, in questa come in ogni altra battaglia, cercherò di essere in prima fila per guidarvi contro il nemico e l'ultimo a ritirarmi.»

I 7. Con queste parole Vespasiano rincuorò l'esercito. Quelli di Gamala, invece, per un po' presero coraggio dal successo riportato inaspettatamente e in tali proporzioni, ma poi, riflettendo che si erano preclusi ogni speranza di trattare, e considerando che non potevano trovar scampo perché già scarseggiavano i viveri, erano molto avvilitì e demoralizzati. Tuttavia non trascuravano di fare quanto potevano per la loro salvezza, e i più valorosi stavano a guardia delle brecce mentre gli altri vigilavano sulle parti del muro rimaste in piedi. Ma quando i romani rafforzarono i terrapieni e tentarono un nuovo assalto, i più fuggirono dalla città attraverso i burroni impraticabili, ove non c'erano sentinelle, e attraverso i passaggi sotterranei. Tutti quelli che erano rimasti per paura di essere catturati morivano di fame; infatti i viveri erano stati requisiti da ogni parte soltanto per coloro che erano in grado di combattere.

I, 8. Mentre quelli continuavano la resistenza in tali disperate condizioni, Vespasiano oltre che dell'assedio pensò di occuparsi anche delle forze che tenevano il monte Tabor'. Questo sta a mezza strada fra la Grande Pianura e Scitopoli, s'innalza a un'altezza di trenta stadi ed è difficilmente accessibile sul versante settentrionale; sulla sommità v'è una distesa pianeggiante della lunghezza di ventisei stadi, interamente circondata da un muro. Una recinzione cosi grande Giuseppe l'aveva fatta costruire in quaranta giorni, rifornendosi dal basso, oltre che di ogni altro materiale, anche dì acqua, perché i montanari non disponevano che di acqua piovana. Essendosi dunque radunata su questo monte una grande moltitudine, Vespasiano inviò Placido con seicento cavalieri. Costui, non potendo portarsi in cima, esortava la massa alla pace facendo sperare un accordo ed offrendo di trattare. E quelli scesero, ma con tutt'altre intenzioni: mentre infatti Placido con i suoi pacifici discorsi si proponeva di catturarli nel piano, quelli venivano giù facendo mostra di essersi persuasi, ma in realtà pronti a cogliere i nemici alla sprovvista. Trionfò l'astuzia di Placido; quando infatti i giudei cominciarono l'attacco, egli finse di darsi alla fuga e, dopo esserseli tirati dietro all'inseguimento per un lungo tratto della pianura, diede ordine ai cavalieri di fare dietro front e li sbaragliò; la maggior parte ne uccise, mentre ai superstiti tagliò la strada impedendo che potessero risalire sul monte. Costoro, abbandonato il Tabor, fuggirono verso Gerusalemme, mentre i paesani, ricevute garanzie e spinti dalla mancanza d'acqua, consegnarono a Placido il monte e sé stessi.

I 9. Intanto a Gamala i più coraggiosi cercavano scampo nella fuga mentre i più deboli morivano di fame; i difensori c resistettero all'assedio fino a che, il ventiduesimo giorno del mese di Iperbereteo, tre soldati della quindicesima legione, verso l'ora del cambio della guardia al mattino, strisciarono fino alla torre che si protendeva dalla parte loro e presero tranquillamente a scalzarla. Le sentinelle che ci stavano sopra non si accorsero né del loro avvicinarsi, perché era notte, né del loro arrivo. I legionari, cercando di non far rumore, scalzarono cinque dei blocchi di pietra più importanti e balzarono indietro. All'improvviso la torre rovinò con un immenso boato trascinandosi appresso le sentinelle, mentre gli uomini di guardia negli altri posti, impauriti, si davano alla fuga; nel tentativo di attraversare le linee molti furono uccisi dai romani, e fra gli altri Giuseppe, che fu colpito a morte mentre cercava di uscire attraverso una delle brecce del muro. In città fra la gente sbigottita dal boato si verificò un fuggi fuggi e un gran panico, come se i nemici avessero fatto irruzione in massa. Si spense allora anche Carete, che giaceva a letto infermo, e lo spavento contribuì grandemente a causarne la morte. I romani, memori del precedente rovescio, non entrarono nella città prima del giorno ventitreesimo del mese sopra detto.

I 10. Tito, che intanto aveva fatto ritorno, sdegnato per la sconfitta che i romani avevano subita in sua assenza, scelse duecento cavalieri e alquanti fanti e alla loro testa, senza trovare ostacoli, entrò nella città. Quando era già dentro, le sentinelle se ne avvidero e corsero gridando alle armi mentre la voce dell'attacco si diffondeva rapidamente tra la gente, e allora alcuni, tirandosi dietro mogli e figli, correvano tra gemiti e clamori a rifugiarsi sulla rocca, altri si facevano incontro a Tito cadendo l'uno dopo l'altro; quanti infine non riuscirono a fuggire verso l'alto, non poterono evitare di incappare nei posti di blocco dei romani. Dappertutto si levava il lamento incessante degli uccisi, e il sangue allagò l'intera città scorrendo giù per i pendii. Contro quelli che si erano rifugiati sulla rocca accorse Vespasiano con tutto l'esercito. La sommità era da ogni parte dirupata e di difficile accesso e si levava ad una altezza enorme tutta gremita di gente e circondata da strapiombi. Quivi i giudei infersero perdite agli attaccanti, oltre che con ogni sorta di proiettili, anche facendo rotolare giù macigni, mentre essi a causa dell'altezza difficilmente venivano colpiti. Ma ecco che per loro rovina un dio scatenò un turbine che soffiava contro di loro sospingendo i proiettili dei romani, mentre faceva deviare e disperdere quelli che essi scagliavano. Per la violenza del turbine non potevano né reggersi in piedi sui dirupi, non avendo uno stabile appoggio, né scorgere i nemici che s'appressavano. Così i romani arrivarono sulla sommità, li accerchiarono e senza dar tregua presero a farne strage, non solo di quelli con le armi in pugno, ma anche di quelli che alzavano le mani: contro tutti li rendeva spietati il ricordo dei commilitoni caduti nel primo assalto. Allora i più dei giudei, stretti da ogni parte e disperando di salvarsi, si gettarono con le mogli e i figli nel precipizio che era stato scavato fino a grandissima profondità sotto la rocca. Accadde così che la furia dei romani apparve più blanda della ferocia che i vinti usarono verso sé stessi; quelli infatti ne uccisero quattromila, mentre più di cinquemila furono coloro che si precipitarono dall'alto. All'infuori di due donne nessuno si salvò; si trattava delle figlie della sorella di Filippo, e questo Filippo era figlio di un notabile di nome Iacimo, che era stato un generale al servizio del re Agrippa. Si salvarono perché erano nascoste e poterono così sfuggire al furore dei romani durante la presa della città; essi infatti in quel momento non provavano pietà nemmeno per i bambini, e molti ne uccisero prendendoli e scagliandoli giù dalla rocca. Così, dunque, Gamala fu presa il giorno ventitreesimo del mese di Iperbereteo, mentre la sua ribellione era cominciata il giorno ventiquattresimo del mese di Gorpieo.

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