[TORNA ALLA PAGINA PRECEDENTE] Dalla GUERRA GIUDAICA di Giuseppe Flavio (Libro IV)
I 2. La città, che per le sue difese naturali era cosi
imprendibile, Giuseppe l'aveva cinta di mura e rafforzata
con gallerie e trincee. Gli abitanti, grazie alla
conformazione dei luoghi, erano più baldanzosi di quelli di
Iotapata, ma di gran lunga meno numerosi risultavano gli
uomini atti alle armi, e dal di fuori non ne avevano
accolti di più appunto perché confidavano nelle difese
naturali; infatti per la sua forte posizione la città si
era riempita di rifugiati e cosi per sette mesi aveva
resistito alle truppe precedentemente inviate da Agrippa ad
assediarla.
I 3. Vespasiano si mise in marcia da Ammathus, dove s'era
accampato di fronte a Tiberiade (Ammathus si potrebbe
tradurre col nome di Terme, perché v'è una sorgente di
acque termali curative), e giunse a Gamala. Non essendo in
grado di stabilire il blocco intorno all'intera città, data
la conformazione del terreno, collocò dei posti di
controllo nei luoghi praticabili e occupò il monte
sovrastante la città. Dopo che le legioni vi ebbero
impiantato e fortificato come di consueto i loro
accampamenti, Vespasiano cominciò a innalzare terrapieni
alle spalle della città, e quello nella parte orientale,
ove sorgeva la torre più alta della città, prese a colmarlo
la legione decimaquinta, mentre la legione quinta investiva
la parte antistante al centro della città e la decima
riempiva le trincee e i burroni. Intanto il re Agrippa si
appressò alle mura e cercò d'intavolare trattative di resa
con i difensori, ma venne ferito da un fromboliere che lo
colpì con una pietra al gomito destro. Il re venne subito
circondato dai suoi mentre i romani si sentirono spronati
alle operazioni d'assedio sia dallo sdegno per ciò che era
toccato al re, sia dal timore per sé stessi; pensavano
infatti che non avrebbe indietreggiato dinanzi ad alcun
eccesso di crudeltà verso stranieri e nemici chi era cosi
inferocito contro un connazionale, che per di più lo
consigliava per il suo bene.
I 4. Innalzati in breve tempo i terrapieni per il gran
numero delle braccia e per la pratica in tali lavori, i
romani accostarono le macchine. Gli aiutanti di Carete e di
Giuseppe - erano questi due a comandare nella città -
ordinarono a battaglia gli uomini, sebbene costoro fossero
impauriti pensando di non poter resistere a lungo
all'assedio per l'insufficienza dell'acqua e delle altre
provviste. Incoraggiatili, li condussero tuttavia sulle
mura, ed essi per un poco respinsero quelli che
appressavano le macchine, ma poi colpiti dalle catapulte e
dalle baliste si ritirarono all'interno della città. Allora
i romani, avvicinati in tre punti gli arieti,
sconquassarono il muro e riversandosi attraverso le brecce
con grandi squilli di trombe e frastuono d'armi mescolati
al loro grido di guerra piombarono sui difensori della
città. Questi per un certo tempo contennero le prime
ondate, impedendo loro di avanzare, e valorosamente
resistettero ai romani; poi, cedendo agli avversari che
erano più numerosi e sbucavano da ogni parte, si ritirarono
verso la parte alta della città. A un certo punto, mentre i
nemici li incalzavano, essi si rivoltarono e piombarono
loro addosso sospingendoli verso il basso e, strettili in
spazi angusti e malagevoli, ne fecero strage. I romani, non
potendo resistere alla spinta dei nemici che li pressavano
dall'alto né aprirsi un varco tra i commilitoni che
premevano dal basso, si disimpegnarono saltando sui tetti
delle case dei nemici che erano a livello delle strade. Ma
ben presto, essendosi riempite e non sopportando il peso,
le case cominciarono a crollare, e una sola cadendo
provocava la rovina di molte di quelle sottostanti, e cosi
queste a loro volta ne facevano cadere altre. Ciò causò
gravi perdite fra i romani i quali, pur vedendo che le case
crollavano, continuavano a saltarvi su non avendo altra via
d'uscita; molti restarono sepolti dalle rovine, molti pur
salvando la vita perdettero qualche parte del corpo,
moltissimi infine ne uccise il polverone soffocandoli.
Quelli di Gamala videro in ciò l'aiuto di dio e
insistettero nell'attacco senza badare alle loro perdite,
costringendo i nemici che sdrucciolavano per le ripide
viuzze a saltare sui tetti, e continuando a uccidere con i
loro colpi dall'alto tutti quelli che cadevano. Le macerie
fornivano loro gran quantità di pietre e le armi le
offrivano i cadaveri dei nemici; infatti strappavano le
spade ai caduti e le usavano per finire i feriti. Molti
romani poi trovarono la morte gettandosi giù dalle case che
stavano per crollare. Anche per quelli che riuscirono a
fuggire non fu una cosa facile la fuga; infatti per
l'ignoranza delle strade e per il denso polverone non si
riconoscevano fra loro e nella confusione si ammazzavano
l'un l'altro.
I 5. Costoro dunque solo con difficoltà riuscirono a
trovare le vie d'uscita e si ritirarono dalla città.
Intanto Vespasiano, che era sempre stato vicino ai suoi
uomini in difficoltà, vinto da una gran pena nel vedere la
città rovinare addosso all'esercito, noncurante della sua
sicurezza si era inavvertitamente spinto un po' alla volta
sino al punto più alto della città, dove si trovò isolato
al centro dei pericoli con solo pochissimi al suo fianco;
non stava allora con lui nemmeno suo figlio Tito, essendo
stato inviato in Siria da Muciano. Il generale non stimò né
sicuro né decoroso volgere le terga, ma ricordandosi delle
prove difficili da lui superate fin da giovane e del
proprio valore, come per una divina ispirazione fece
congiungere gli scudi dei suoi compagni a protezione dei
loro corpi e delle armature e affrontò la marea di colpi
che si riversavano dall'alto: non cedette né alla massa
degli uomini né dei proiettili finché i nemici,
impressionati da un tal coraggio sovrannaturale,
rallentarono gli assalti. Allora, mentre quelli incalzavano
con minor slancio, egli si ritirò a passo a passo senza
mostrare le spalle prima di essere fuori del muro. In
questo scontro caddero moltissimi romani, fra cui il
decurione Ebuzio, che si era distinto per il suo
grandissimo valore non solo nell'azione in cui perse la
vita, ma anche prima in ogni occasione, e che aveva
inflitto gravissime perdite ai giudei. Un centurione di
nome Gallo, rimasto tagliato fuori insieme con dieci uomini
nella confusione della mischia, si era nascosto in una casa
e qui aveva sentito - essendo un Siro come i suoi - i
discorsi fatti a tavola dagli abitanti circa i piani
stabiliti per l'attacco contro i romani e per la loro
difesa; durante la notte saltò su, uccise tutti e insieme
coi suoi soldati rientrò fra i romani.
I 6. Vespasiano, vedendo l'esercito demoralizzato perché
non avvezzo alle sconfitte e perché fino a quel momento non
aveva mai subito un tale disastro, e per di più divorato
dalla vergogna di aver abbandonato il comandante solo in
mezzo ai pericoli, si diede a rianimarlo. Facendo finta di
niente per ciò che riguardava la sua persona, per evitare
la più piccola impressione di un rimprovero, disse che
bisognava sopportare coraggiosamente una disfatta che
toccava tutti quanti, riflettendo sulla natura della
guerra: come non si raggiunge mai la vittoria senza perdite
e com'è incerta la mutevole fortuna. Perciò, dopo aver
sterminato una miriade di giudei, anch'essì avevano pagato
un piccolo scotto alla dea. Ma, com'era da uomini dappoco
esaltarsi troppo ai successi, così era da vili abbattersi
negli insuccessi. «Nell'un caso e nell'altro le situazioni
mutano rapidamente, e il più forte è chi pur nella prospera
fortuna si conserva moderato, per restar sereno anche
quando dovrà affrontare le avversità. Ciò che ora è
capitato non si deve né alla nostra debolezza né al valore
dei giudei, perché è stata la difficoltà del terreno che a
loro ha fatto avere la meglio e a noi la peggio. Sotto
questo rispetto vi si potrebbe rimproverare di non aver
frenato il vostro slancio; quando infatti i nemici si
ritiravano verso l'alto voi dovevate fermarvi, e non
inseguirli esponendovi ai pericoli che impendevano
dall'alto; poi, impadronitivi della città bassa, dovevate
un po' alla volta provocare i cittadini a una battaglia
sicura e su un terreno più stabile. E invece, anelando
sfrenatamente alla vittoria, avete trascurato la vostra
sicurezza. Ma il mancare di circospezione in guerra e la
cieca furia dell'assalto non sono difetti di noi romani,
che anzi c'imponiamo sempre con la nostra esperienza e la
nostra disciplina, ma son difetti da barbari, a cui i
giudei debbono soprattutto le loro sconfitte. Occorre
dunque far ritorno alle nostre qualità abituali e trarre
motivo di coraggio più che dì avvilimento da
quest'immeritata sconfitta. La miglior consolazione ognuno
la cerchi nel suo braccio; così infatti vendicherete gli
uccisi e punirete gli uccisori. Quanto a me, in questa come
in ogni altra battaglia, cercherò di essere in prima fila
per guidarvi contro il nemico e l'ultimo a ritirarmi.»
I 7. Con queste parole Vespasiano rincuorò l'esercito.
Quelli di Gamala, invece, per un po' presero coraggio dal
successo riportato inaspettatamente e in tali proporzioni,
ma poi, riflettendo che si erano preclusi ogni speranza di
trattare, e considerando che non potevano trovar scampo
perché già scarseggiavano i viveri, erano molto avvilitì e
demoralizzati. Tuttavia non trascuravano di fare quanto
potevano per la loro salvezza, e i più valorosi stavano a
guardia delle brecce mentre gli altri vigilavano sulle
parti del muro rimaste in piedi. Ma quando i romani
rafforzarono i terrapieni e tentarono un nuovo assalto, i
più fuggirono dalla città attraverso i burroni
impraticabili, ove non c'erano sentinelle, e attraverso i
passaggi sotterranei. Tutti quelli che erano rimasti per
paura di essere catturati morivano di fame; infatti i
viveri erano stati requisiti da ogni parte soltanto per
coloro che erano in grado di combattere.
I, 8. Mentre quelli continuavano la resistenza in tali
disperate condizioni, Vespasiano oltre che dell'assedio
pensò di occuparsi anche delle forze che tenevano il monte
Tabor'. Questo sta a mezza strada fra la Grande Pianura e
Scitopoli, s'innalza a un'altezza di trenta stadi ed è
difficilmente accessibile sul versante settentrionale;
sulla sommità v'è una distesa pianeggiante della lunghezza
di ventisei stadi, interamente circondata da un muro. Una
recinzione cosi grande Giuseppe l'aveva fatta costruire in
quaranta giorni, rifornendosi dal basso, oltre che di ogni
altro materiale, anche dì acqua, perché i montanari non
disponevano che di acqua piovana. Essendosi dunque radunata
su questo monte una grande moltitudine, Vespasiano inviò
Placido con seicento cavalieri. Costui, non potendo
portarsi in cima, esortava la massa alla pace facendo
sperare un accordo ed offrendo di trattare. E quelli
scesero, ma con tutt'altre intenzioni: mentre infatti
Placido con i suoi pacifici discorsi si proponeva di
catturarli nel piano, quelli venivano giù facendo mostra di
essersi persuasi, ma in realtà pronti a cogliere i nemici
alla sprovvista. Trionfò l'astuzia di Placido; quando
infatti i giudei cominciarono l'attacco, egli finse di
darsi alla fuga e, dopo esserseli tirati dietro
all'inseguimento per un lungo tratto della pianura, diede
ordine ai cavalieri di fare dietro front e li sbaragliò; la
maggior parte ne uccise, mentre ai superstiti tagliò la
strada impedendo che potessero risalire sul monte. Costoro,
abbandonato il Tabor, fuggirono verso Gerusalemme, mentre i
paesani, ricevute garanzie e spinti dalla mancanza d'acqua,
consegnarono a Placido il monte e sé stessi.
I 9. Intanto a Gamala i più coraggiosi cercavano scampo
nella fuga mentre i più deboli morivano di fame; i
difensori c resistettero all'assedio fino a che, il
ventiduesimo giorno del mese di Iperbereteo, tre soldati
della quindicesima legione, verso l'ora del cambio della
guardia al mattino, strisciarono fino alla torre che si
protendeva dalla parte loro e presero tranquillamente a
scalzarla. Le sentinelle che ci stavano sopra non si
accorsero né del loro avvicinarsi, perché era notte, né del
loro arrivo. I legionari, cercando di non far rumore,
scalzarono cinque dei blocchi di pietra più importanti e
balzarono indietro. All'improvviso la torre rovinò con un
immenso boato trascinandosi appresso le sentinelle, mentre
gli uomini di guardia negli altri posti, impauriti, si
davano alla fuga; nel tentativo di attraversare le linee
molti furono uccisi dai romani, e fra gli altri Giuseppe,
che fu colpito a morte mentre cercava di uscire attraverso
una delle brecce del muro. In città fra la gente sbigottita
dal boato si verificò un fuggi fuggi e un gran panico, come
se i nemici avessero fatto irruzione in massa. Si spense
allora anche Carete, che giaceva a letto infermo, e lo
spavento contribuì grandemente a causarne la morte. I
romani, memori del precedente rovescio, non entrarono nella
città prima del giorno ventitreesimo del mese sopra detto.
I 10. Tito, che intanto aveva fatto ritorno, sdegnato per
la sconfitta che i romani avevano subita in sua assenza,
scelse duecento cavalieri e alquanti fanti e alla loro
testa, senza trovare ostacoli, entrò nella città. Quando
era già dentro, le sentinelle se ne avvidero e corsero
gridando alle armi mentre la voce dell'attacco si
diffondeva rapidamente tra la gente, e allora alcuni,
tirandosi dietro mogli e figli, correvano tra gemiti e
clamori a rifugiarsi sulla rocca, altri si facevano
incontro a Tito cadendo l'uno dopo l'altro; quanti infine
non riuscirono a fuggire verso l'alto, non poterono evitare
di incappare nei posti di blocco dei romani. Dappertutto si
levava il lamento incessante degli uccisi, e il sangue
allagò l'intera città scorrendo giù per i pendii. Contro
quelli che si erano rifugiati sulla rocca accorse
Vespasiano con tutto l'esercito.
La sommità era da ogni parte dirupata e di difficile
accesso e si levava ad una altezza enorme tutta gremita di
gente e circondata da strapiombi. Quivi i giudei infersero
perdite agli attaccanti, oltre che con ogni sorta di
proiettili, anche facendo rotolare giù macigni, mentre essi
a causa dell'altezza difficilmente venivano colpiti. Ma
ecco che per loro rovina un dio scatenò un turbine che
soffiava contro di loro sospingendo i proiettili dei
romani, mentre faceva deviare e disperdere quelli che essi
scagliavano. Per la violenza del turbine non potevano né
reggersi in piedi sui dirupi, non avendo uno stabile
appoggio, né scorgere i nemici che s'appressavano. Così i
romani arrivarono sulla sommità, li accerchiarono e senza
dar tregua presero a farne strage, non solo di quelli con
le armi in pugno, ma anche di quelli che alzavano le mani:
contro tutti li rendeva spietati il ricordo dei commilitoni
caduti nel primo assalto. Allora i più dei giudei, stretti
da ogni parte e disperando di salvarsi, si gettarono con le
mogli e i figli nel precipizio che era stato scavato fino a
grandissima profondità sotto la rocca. Accadde così che la
furia dei romani apparve più blanda della ferocia che i
vinti usarono verso sé stessi; quelli infatti ne uccisero
quattromila, mentre più di cinquemila furono coloro che si
precipitarono dall'alto. All'infuori di due donne nessuno
si salvò; si trattava delle figlie della sorella di
Filippo, e questo Filippo era figlio di un notabile di nome
Iacimo, che era stato un generale al servizio del re
Agrippa. Si salvarono perché erano nascoste e poterono così
sfuggire al furore dei romani durante la presa della città;
essi infatti in quel momento non provavano pietà nemmeno
per i bambini, e molti ne uccisero prendendoli e
scagliandoli giù dalla rocca. Così, dunque, Gamala fu presa
il giorno ventitreesimo del mese di Iperbereteo, mentre la
sua ribellione era cominciata il giorno ventiquattresimo
del mese di Gorpieo. |